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Channel: Sbagliando s'impera » 45 giri
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The Rolling Stones – 8 aprile 1967

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Poco più di un mese dopo il concerto di The Who (di cui ho raccontato qui) arrivarono al Palalido The Rolling Stones. Due concerti, uno il pomeriggio e uno la sera. Prezzo del biglietto, mi pare, mille lire. Poco più del prezzo di un 45 giri. Una cifra che potevo permettermi senza dover chiedere ai genitori. Quindi, consapevole del fatto che difficilmente mi avrebbero dato il permesso (facevo la IV ginnasio) e per evitare qualunque discussione sui pericoli per la morale, la salute e l’incolumità personale che il concerto comportava (anche se i Rolling Stones, benché famosissimi come l’alternativa al dominio dei Beatles, non erano ancora accompagnati dalla fama maledetta che li avrebbe seguiti dopo Altamont) ci andai di nascosto, come l’altra volta.

Dei Rolling Stones avevo all’epoca, se non ricordo male, un solo 45 giri, Paint it Black.

pixogs.com/image

Conoscevo, naturalmente, i loro hit principali: Satisfaction (con quel riff memorabile di Keith Richards, suonato alla chitarra con il fuzzbox), The Last Time, Get Off of My Cloud, 19th Nervous Breakdown. E poi As Tears Go By e Lady Jane, ballate più lente. I singoli successivi a Paint It Black (all’epoca uscivano a raffica: i Rolling Stones soltanto nel 1966 ne avevano fatti uscire 4) non mi erano piaciuti follemente (sul primo c’era Lady Jane, ma come lato B, mentre il lato A era il poco memorabile Mother’s Little Helper, di cui all’epoca non capivo bene il significato; Have You Seen Your Mother, Baby, Standing in the Shadow? di memorabile aveva soltanto la lunghezza del titolo…). Degli album conoscevo (ma non avevo, se non su nastro – le musicassette erano di là da venire) Out of Our Heads ma soprattutto Aftermath.

Il tour del 1967 doveva promuovere, suppongo adesso (all’epoca le logiche di marketing mi erano ignote e l’idea che si facessero i concerti per trainare le vendite di dischi e non per accontentare i fan mi era del tutto estranea), il nuovo LP e il nuovo singolo, usciti da poco. L’album, Between the Buttons, non l’avevo ancora sentito e per molto tempo non ha fatto parte della mia discoteca, neppure dopo che ero diventato musicalmente onnivoro ed economicamente più benestante. Il singolo, sì. Intanto, su un lato c’era la scandalosa (per l’epoca) Let’s Spend the Night Together, che fu censurata persino all’Ed Sullivan Show, dove un ammiccante Mick Jagger fu costretto a cantare Let’s spend some time together. Però, se non ricordo male, alla radio italiana la trasmettevano (a quei tempi c’era soltanto la Rai), a differenza di Je t’aime… moi non plus che, un paio d’anni dopo, non soltanto non poteva essere trasmessa dalla Rai, ma fu anche ritirata dal commercio per ordine della magistratura (ed effettivamente a me mi turbava, e non poco). Ma sull’altro lato c’era la ben più interessante Ruby Tuesday, con un arrangiamento raffinatissimo e misterioso (oltre al trio elettrico – chitarra basso e batteria – abbiamo un flauto a becco suonato da Brian Jones, un piano, anch’esso suonato da Brian Jones, una chitarra a 12 corde suonata da Keith Richards e un contrabbasso, suonato con l’arco da Bill Wyman e Keith Richards insieme) e parole altrettanto misteriose: si parlava di una donna, forse una groupie, forse una ex di Keith Richards, ma il significato era comunque sfuggente, soprattutto per chi doveva ascoltare e riascoltare il disco con attenzione per capirle (non c’erano i siti di testi come adesso):

She would never say where she came from
Yesterday don’t matter if it’s gone
While the sun is bright
Or in the darkest night
No one knows
She comes and goes

Goodbye, Ruby Tuesday
Who could hang a name on you?
When you change with every new day
Still I’m gonna miss you…

Don’t question why she needs to be so free
She’ll tell you it’s the only way to be
She just can’t be chained
To a life where nothing’s gained
And nothing’s lost
At such a cost

Goodbye, Ruby Tuesday
Who could hang a name on you?
When you change with every new day
Still I’m gonna miss you…

There’s no time to lose, I heard her say
Catch your dreams before they slip away
Dying all the time
Lose your dreams
And you may lose your mind.
Ain’t life unkind?

Goodbye, Ruby Tuesday
Who could hang a name on you?
When you change with every new day
Still I’m gonna miss you…

Goodbye, Ruby Tuesday
Who could hang a name on you?
When you change with every new day
Still I’m gonna miss you…

Questa la versione del 45 giri registrato in studio:

Questa è invece una versione dal vivo a Parigi, nello stesso tour del 1967 di cui stiamo parlando, per l’esattezza 3 giorni dopo, l’11 aprile, all’Olympia:

* * *

Il concerto, allora. Secondo Wolfram Alpha era un sabato milanese tutt’altro che primaverile, nebbioso e freddino.

I Rolling Stones suonarono per un’ora o giù di lì una setlist piuttosto risicata:

  1. The Last Time
  2. Paint It Black
  3. 19th Nervous Breakdown
  4. Lady Jane
  5. Get Off Of My Cloud
  6. Yesterday’s Papers
  7. Ruby Tuesday
  8. Let’s Spend The Night Together
  9. Goin’ Home / Satisfaction

Per la ricostruzione del concerto, vi segnalo la pagina che vi dedica Rolling Stones Italia, con le testimonianze (tra gli altri) di Fabio Treves ed Eugenio Finardi (e qualche inevitabile errore).

Anch’io ricordo gli Stormy Six (che d’altra parte era un gruppo formatosi tra gli studenti del vicinissimo Liceo Scientifico Leonardo da Vinci), ma non Al Bano (dev’essere una forma di damnatio memoriæ retrospettiva).

Ancora una volta qualche traccia  sul blog della classe 5ª F del liceo scientifico Vittorio Veneto, maturità 1971, stesso anno mio (anche se classico, e dai gesuiti, e cambia tutto), ancora m che si firma con la sola iniziale:

… i Rolling Stones, con l’ancora vivo Brian Jones. Ricordo che Mick Jagger uscì sul palco con un mazzo di fiori che gettò tra il pubblico: subito tre fanciulle al pronto soccorso per tentativo di accaparramento di flora …

 * * *

wikimedia.org/wikipedia/commons

Nell’articolo di Rolling Stones Italia, Piero Casiraghi cita il dulcimer di Brian Jones in Lady Jane. All’epoca non si parlava praticamente d’altro: il dulcimer è poi un salterio, parente stretto della cetra e del cymbalom ungherese. Ma il fatto che lo suonasse Brian Jones in una canzone così medievaleggiante (elisabettiana, per l’esattezza) ne fece un immediato oggetto di venerazione. Eravamo così. Eravamo ragazzi in cerca di miti.



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